Martin Mystre

[Recensione] Martin Mystre n. 340, Lalbero filosofico

Torna il Martin Mystre per adulti di Vincenzo Beretta, ed come se si ripartisse da dove ci eravamo fermati.

22/08/2015
[Recensione] Martin Mystre n. 340, Lalbero filosofico

Martin Mystére n. 340
"L’albero filosofico"
Sergio Bonelli Editore
Agosto 2015

Storia di Vincenzo Beretta. Arte di Giancarlo Alessandrini.

Dopo tanti anni, torna il Martin Mystère per adulti di Vincenzo Beretta, ed è come se si ripartisse da dove ci eravamo fermati.
Per noi dilettanti della parola scritta, è praticamente impossibile stendere una “recensione” (per cui la chiameremo “commento a caldo”) che possa rendere il giusto merito a un’opera così intensa e potente, capace di svilupparsi contemporaneamente lungo le più importanti e vere direttrici dell’universo Mysteriano, dove l’aggettivo in questione non indica solo l’amore per i “mysteri”, ma anche e soprattutto un modo di essere e di pensare, capace di trasformare l’enigma impossibile in una metafora che porti una critica costruttiva alla società e ai modi di esistere contemporanei. Certo, per rubare le parole del DylanDoghiano Recchioni, questa è una prerogativa dell’opera di Tiziano Sclavi, che metteva alla berlina l’edonismo contemporaneo, e non è un caso che Vincenzo Beretta abbia voluto che in questo albo Martin guidasse un modello molto particolare di auto a noleggio, targata 665.
Ma non è forse anche vero che, sin dagli inizi della saga Mysteriana, Alfredo Castelli rifletteva su come l’autodistruzione di Atlantide fosse un monito per gli errori che la società moderna stava tornando a commettere diecimila anni dopo? E con storie come “L’oceano dei veleni” oppure “Roncisvalle”, Castelli non puntava forse il dito contro il dissennato e sistematico abuso dell’ambiente in nome del profitto, e a discapito della salute di chi vi abita?
Quest’ultimo argomento, che si potrebbe definire riduttivamente come “ambientalista”, forse non rientra nell’ambito della critica sociale appena citata, ma sicuramente è una componente storica di Martin Mystère che, finalmente, ritorna a farsi sentire, e soprattutto lo fa con l’autorevolezza, la forza e la convinzione di un tempo.

Inizialmente intitolato “Alle foreste della follia”, presumibilmente in omaggio alle montagne del romanzo breve di H.P. Lovecraft, “L’albero filosofico” è un albo in cui si parla di cose vere e terribili, con competenza e sobrietà, con una sorta di dignitoso pudore che rispetta la sofferenza altrui e che motiva nel modo più nobile il desiderio di conoscere, distaccandosi nettamente dal sensazionalismo facilone e dalla morbosità senza ritegno che il modello "reality show" ha ormai reso dominante.
Si tracciano connessioni tra psicanalisi, mitologia e alchimia (con un sottile richiamo all’analogo approccio per il concetto dei Tarocchi, già visto nella serie). Si riflette sui due volti della scienza (e della chimica) applicata alla vita dell'uomo con lo scopo apparente di migliorarla, ma col veleno nascosto della prevalenza del profitto a ogni costo.
Si citano le suggestioni di "recenti" contributi all'immaginario fantastico collettivo, che vanno da quelle esplicite (i film ”A Beautiful Mind”, ”Labyrinth”, Dylan Dog) a quelle solamente sfiorate a livello visivo/iconografico: la terrificante Clarisse, nella sala dei colloqui dell’istituto psichiatrico criminale, non ci ricorda forse Samara Morgan, la sinistra bambina del film The Ring (versione USA)? E l’ipotizzata evocazione dell’Altro da parte di Clarisse, tramite un patto scellerato, non è forse analoga al metodo con cui i coniugi Morgan concepirono la bambina in quello stesso film? E’ una citazione/influenza che non serve per plagiare la trama del film, ma per costruire qualcosa di completamente diverso, che però risuona a livello iconografico, come se gli autori di entrambe le opere avessero, anche loro, scorto qualcosa che non a tutti è dato vedere.
Qualcosa come "Gli Altri", emersi da un folklore non solo indiano che, come l'intero albo, risuona a sua volta con l'ossatura dell'universo di Martin Mystère, in quanto attinge agli elementi archetipi e alle tematiche fondamentali della mitologia che Alfredo Castelli e seguaci hanno costruito.
(E’ anche inevitabile pensare ad altre creature d’ombra, come quelle di "Con la coda dell'occhio" oppure “Coloro che vivono di morte”, che ci riporta proprio alla mitologia indiana).

Lettura intensa, travolgente, che ci avviluppa e ci impedisce di abbandonarla, trascinandoci sempre più a fondo in un intricato universo fittizio che è tanto fantastico (gli "Altri") quando dolorosamente realistico, è anche un labirinto da cui non si vorrebbe mai uscire, perché è una narrazione che pone una sfida al nostro intelletto, e parla all'umanità che troppi di noi hanno dimenticato, in nome dell'individualismo, dell’egoismo, del successo, della fama o del benessere (oppure, più tristemente, non ne siamo mai stati dotati).
E’ un romanzo horror, un giallo psichiatrico, un ecothriller, un’opera letteraria che a un certo punto sembra citare la visione della natura di Giacomo Leopardi, un continuo gioco di inganni e di specchi (Alina va da “tossicomane sperimentale” a emula/alleata di Clarisse, passando per “vera malvagia che attira Martin in trappola). Una fusione di generi narrativi, i cui elementi si rimescolano costantemente in un caleidoscopio che, solo alla fine della lettura, ci mostra l’immagine definitiva, quella concepita dall’autore.
E’ un’immagine terribile e brutale, dolorosa e sconfortante, e anche per questo ci colpisce in modo paradossalmente positivo, perché sentiamo che, in quanto tale, essa è la verità, e non una conclusione consolatoria e all’acqua di rose dove tutto si risolve per il meglio.

E dopo aver terminato l’albo, siccome vorremmo che non finisse mai e che Beretta continuasse a raccontare di questa vicenda, ci chiediamo: è davvero quella compresa infine da Martin (e poi da Alina), la spiegazione unica e assoluta dell’intera vicenda?
Sempre in omaggio all’inconoscibilità della natura e del cosmo che Sclavi ha definito in Dylan Dog, Beretta dissemina elementi non del tutto risolti: la ricomparsa dei testi della tesi di laurea prima, e dei disegni infantili poi, entrambi opere di Clarisse, avviene proprio al momento giusto, ma avviene anche con modalità che sfiorano l’arcano (ma ricordiamoci che Beretta ci dice: sincronicità, intervento divino, fate voi). E’ un caso, che la tesi compaia tra le radici della betulla, come smosse di fresco, oppure che i disegni siano invece nascosti tra le radici che sprofondano nella cantina della presunta casa abbandonata dell’alchimista D’Amberle? In entrambe le situazioni, sembra quasi che un’entità non ostile (La natura? Gli alberi? La foresta?) voglia aiutare Martin a comprendere la verità sul sentiero creato da Clarisse. (Su Facebook, Vincenzo Beretta ha sottolineato che è presente anche un terzo intervento da parte della forza arcana che vuole condurre Martin verso il cuore nero della vicenda: è la folata di vento che spalanca la finestra della camera di Clarisse, lacerando il poster sulla parete per rivelare il disegno che esso nasconde).
E ancora: l’artista Izergil, durante la vicenda, ha realizzato immagini collegabili alla tragedia e alle ossessioni di Clarisse, apparentemente senza rendersene conto, dato che non ne parla mai. Si è trattato nuovamente di coincidenze, oppure nella follia di Clarisse esiste qualcosa di oggettivo, che anche altre persone possono percepire? Oppure Izergil ha banalmente percepito e illustrato proprio le idee del tutto fittizie che vorticano nella testa di Clarisse? Se Alina è dotata di un talento empatico verso la vegetazione, perché anche Izergil non potrebbe avere un talento simile? (Ci chiediamo comunque come possa tirare a campare, con quei disegni bruttini!)

Il confine tra razionalità e fantastico resta sempre molto labile, ed è impossibile capire quando il secondo sconfini nella prima, anche grazie all’arte di un Giancarlo Alessandrini particolarmente ispirato e partecipe (arte apparentemente poco soggetta a correzioni e ripensamenti della redazione).
Splendidamente in sintonia con la narrazione, Alessandrini propone immagini e atmosfere tenebrose, oniriche, nebbiose, surreali, possenti, realistiche, dolenti. La sua regia visiva esalta tutti i toni della poliedrica narrazione di Beretta, sia che si tratti di narrare fiabe con “dylandoghiane presenze” terrificanti, sia che si tratti di dare forza visiva a dialoghi già di per sé intensi e potenti. E’ il caso dell’incontro con Sarah, gestito in un modo squisitamente cinematografico, che esalta il dramma inespresso della migliore amica di Clarisse, ma è anche il caso delle rivelazioni più terribili (il suicidio e lo stupro incestuoso), che Beretta non esplicita verbalmente, ma affida all’arte di Alessandrini, generando un impatto ancora più forte sul lettore, il quale diviene in quei momenti partecipe della vicenda in prima persona.

Si potrebbe andare avanti a sottolineare allo stesso modo ogni preziosa sequenza di questo albo, ma finiremmo solo col riassumerlo ancor più di quanto fatto sinora.
Chiudiamo quindi con un’ultima riflessione sull’uso di un personaggio, seguita da qualche osservazione spicciola.
Come sempre, Beretta scrive un’ottima Diana Lombard, capace di essere intelligentemente matura e umanamente fallibile, nel suo dilemma tra il non voler sollevare l’ambigua questione del reverendo Norman e l’esigenza di svolgere fino in fondo un lavoro che per lei è una missione. Questa nobiltà d’intenti, che si scontra con la prosaicità della vita, si riflette anche in Martin, mostrandoci ancora una volta come e perché queste due persone siano fatte l’una per l’altra.
E questa fedeltà al Martin Mystére di Alfredo Castelli non può che farci pensare a un’altra scelta che Beretta ha compiuto, e cioè quella di mettere in scena un Martin non protagonista e non risolutorio, ma spettatore quanto il lettore. E’ un Martin coerente con quello classico, in quanto capace di cogliere comunque la “chiave” della tragedia di Clarisse, giungendo a comprenderla più a fondo di quanto avessero fatto persino Sarah e Alina, ma resta comunque un attore che non riesce a cambiare l’esito della tragedia, o a portare un finale salvifico.

Per finire, le osservazioni spicciole.
A pagina 41, ultima vignetta: Alina riceva da Izergil una risposta insensata.
A pagina 133, Alfredo Castelli compare nella vignetta in cui si parla di una professione che conduce a ritrovarsi vecchi, poveri e vestiti di stracci. Su Facebook, Beretta ha spiegato che, nella tavola originale, Martin diceva “Mi ricorda un’altra professione”, alludendo ovviamente a quella dell’autore di fumetti. Castelli ha poi cambiato la battuta.
A pagina 133, compare lo stesso Vincenzo Beretta (l’autore di romanzi che adatta al proprio gusto i personaggi storici).

Per gli amanti del paradosso, aggiungiamo ancora una nota (pur avendo dichiarato il contrario): se gli “Altri” sono fiabe locali e quindi non esistono, se la teoria alchemica di D’Amberle è stata costruita sulle allucinazioni di Clarisse e quindi è fasulla, se gli eventi casuali sono spiegabili con la sincronicità… ebbene, allora in questo albo il mystero convenzionale (quello che deriva da arcano, paranormale, misticismo, scienze impossibili eccetera) non esiste, in quanto la vicenda rientra tuta nell’ambito della scienza (chimica, psichiatria, neurologia), e quindi ciò per cui ci siamo tanto esaltati è un albo “alla CICAP”: esattamente il tipo di storia per cui abbiamo avuto solo parole negative in recensioni abbastanza recenti.

Testi di Franco Villa